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Gauguin è oggi un mito per gli abitanti della Polinesia


- Mio padre Koké, adesso sì che tutti lo stimano. Un genio. Ma allora, quando era vivo, che vita ha fatto qui. Grandi gioie prima e grandi dolori poi - disse Émile Gauguin, parlando a tratti, in un francese polinesianizzato, senza accento, un po’ umoristico. - Lo consideravano un pittore decadente, fallito. E per le autorità era un seccatore. -
Émile Gauguin, chiamato Koké, alla tahitiana, come suo padre, si lisciò la pancia enorme che gli usciva dai calzoni corti e azzurri. Aveva un ventre rosa e globoso, che uscendo prepotente dai calzoni azzurri sembrava il sole nascente dal mare.
Stavamo seduti nella sua abitazione, un garage di Papeete, a Tahiti. Un garage di legno, largo una quarantina di metri, profondo la metà, perennemente aperto e senza porte sul lato stradale. In un angolo, dietro due grandi casse di cartone, sotto dei cartelloni pubblicitari, c’era una panchina da giardino pubblico.  Era il letto del figlio tahitiano del grande pittore francese. Quella era tutta la sua casa. Una bottiglia d’acqua, una valigia, una maschera subacquea ed un paio di nasse per la pesca, costruite da Gauguin, completavano l’arredamento. Tre grandi macchine americane stazionavano nel garage. E lui, a tempo perso, ne era il guardiano.
- Ho visto alle isole Marchesi l’atto di inventario degli averi di mio padre quando morì. C’è scritto “...ha lasciato molti debiti e poche cose al suo attivo. Eredità: due pantaloni di tela grigia, sei camicie, quattro paia di scarpe rosse e numerose tele da cui non si ricaverà abbastanza per pagare i suoi debiti, dato che Paul Gauguin, poeta decadente, ha poche possibilità di trovare degli amatori...”. Se lo immagina adesso? Ma ora qui in Polinesia non c’è più un quadro suo. E’ rimasto solo un piccolo dipinto al museo di Papeete. Io, poi, non ho mai avuto niente di suo. -                
Émile Gauguin mi guardò coi suoi occhi scuri e mansueti. Uno degli occhi aveva una macchia bianca. Gauguin era volenteroso nelle sue informazioni, era il suo mestiere, fare il figlio di Gauguin, per tutti quelli che passavano  e lo volevano vedere, fotografare, parlargli. Sapeva che ci guadagnava sempre qualcosa.
Aveva 61 anni. Assomigliava al padre nel volto, la fronte stretta, gli occhi profondi, il naso camuso, le guance forti, il mento volitivo. Ma non aveva la forte espressione del padre. Era un’aria più paciosa la sua, anche se un vigore indubbio gli usciva dalle membra grosse.
Émile è uno dei figli polinesiani ancora in vita di Gauguin. L’altra  è una figlia che vive alle isole Marchesi, dove il padre morì. Le storie di altri figli sparsi per la Polinesia sono false. Quando nacque, Émile non fu riconosciuto dal padre, ormai malato e morente, ma lui si chiama ugualmente Gauguin, anzi Koké.
A Émile il padre non lasciò alcuna eredità. Ma qualcosa gli era rimasto, qualcosa su cui lui viveva, la discendenza naturale. Tutti la ricercavano in lui, grossa, modesta e viva reliquia di un grande pittore di cui in Polinesia è rimasto solo il nome, la tomba, la fama.
- Da vivo mio padre era morto per i marchisiani. Gli volevano bene perché li difendeva contro l’amministrazione e lo sfruttamento degli europei e perché si mescolava a loro senza doppi fini. Ma nessuno lo stava a sentire in definitiva, perché era troppo veemente e profondo. E alla fine non lo tenevano in considerazione. Neanche come pittore. Un filosofo matto in più, dicevano.  
Ma ora che è morto e famoso, è diventato finalmente vivo, vivissimo. Ne cercano le tele, qualche ricordo dimenticato. Ma non c’è più niente.- concluse senza malinconia  Émile. 
La Polinesia è entrata in questo mito. Ora, se e un pittore arriva qui viene sempre osservato attentamente. Nessuno si vuol far sfuggire un altro Gauguin. Ciò ha fatto la fortuna passeggera di parecchi, sconosciuti artisti. Recentemente un pittore francese, Arnald, ha venduto fior di quadri, scivolando su questo mito. E tre o quattro altri giovani artisti si sono messi sulla scia. Nessuno di loro è tahitiano. I tahitiani, come tutti i polinesiani, non conoscono la pittura.
- Mio padre non lo ricordo - continuò - Mia madre Ate mi parlava di lui. Diceva che era cattivo con lei, non le dava soldi. Ma era malato e in cattive acque. Sa cosa faceva quando nacqui io? Il giornalista. Il primo di Tahiti.   
Émile aveva serbato finora questa notizia per fare un certo effetto su di me, alla fine del nostro colloquio. Gauguin giornalista. Nel 1897 era uscito, poetico e programmatico, il libro più importante di Paul Gauguin, Noa Noa, pubblicato sulla “Revue Blanche” una rivista letteraria per artisti di arti figurative. Nel 1898 Gauguin era entrato nel catasto di Tahiti. Il catasto di Tahiti, l’abisso più nero dei sogni polinesiani. Un tentativo di suicidio morale che era seguito al tentativo di suicidio fisico al culmine dei grandi dolori fisici, affettivi ed economici che l’avevano colpito a partire dal 1897, con la morte della figlia Aline, la rottura definitiva e completa con la moglie danese Mette, i mesi d’ospedale, gli insuccessi delle vendite. Figlio di un giornalista repubblicano, Gauguin si gettò anche lui nel “mestieraccio” spinto da un desiderio di vendetta verso le autorità locali e le loro soverchierie. Furono due anni di attività sferzante.
Finanziato da un mercante di mare che voleva farsi conoscere, diretto, scritto, stampato dalle mani di Gauguin stesso uscì “le Vespe”, mensile rivelatore di scandali amministrativi. Fu uno dei primissimi giornali polinesiani. Tirava un centinaio di copie.
Nel primo numero c’era un attacco violentissimo contro il Procuratore Generale che non aveva dato ragione a Gauguin in un processo di furto contro la sua vahine, la ragazza polinesiana, che viveva con lui.  Ma il Procuratore, con gran disgusto di Gauguin, non rintuzzò l’attacco. La cosa non abbatté l’artista. Per due anni, attaccando  e insultando, con invettive brillantissime e brucianti, governatore, missionari, e tutti i profittatori locali, Gauguin difese su “le Vespe” i tahitiani e i vagabondi innocui e felici dei mari del Sud, affermando che quello era il loro paradiso. Poi il giornale fallì. Dopo “le Vespe” fu la volta de “il Sorriso”, titolo opposto, stessa musica. Quindi venne l’ultimo tentativo, di cui uscì un solo numero, col titolo generoso e pieno di speranza datogli da un uomo generoso e disperato: “il Mondo per tutti“. Ma anche questa iniziativa non resse per mancanza di denaro. 
Senza più rancore, fallito il tentativo di guidare il pubblico contro le autorità, oberato di multe, incapace di aumentare le tirature per l’abitudine locale di prestarsi il giornale, abbandonato dal socio fondatore, fallita l’ultima mostra a Parigi, Gauguin si ritirò malato ed affranto a Hiva Oa, una delle isole Marchesi.
Qui, due anni dopo moriva, nel maggio 1903. Lo accompagnò fino all’ultimo il suo destino di non essere preso sul serio, perché troppo sincero e serio.
Molte di queste cose non me le raccontò Émile, ma parecchie lui le sapeva. Suo padre era venuto in Polinesia a cercare l’innocenza, la purezza delle origini, l’oblio della civiltà faziosa vinta finalmente nella natura che più gli ispirava l'universalità libera dell’arte.
 Paul Gauguin non aveva cercato l’esotismo, il pittoresco, la sensualità. Era stata un’avventura estetica guidata dall’intelligenza, dalla cultura, dalla sensibilità. Purtroppo aveva trovato proprio in questo mondo libero un ostacolo: non l’incapacità di essere compreso, ma quella di esser seguito pienamente, nella sua profonda scalata verso le origini eterne dove l’arte si confonde con la natura. E’ questo il linguaggio delle sue opere. Ma la Polinesia, che l’aveva ispirato, non l’aveva capito.
Si era trovato solo, nella lotta contro i soprusi comuni, di ogni giorno. E’ la storia di tante anime sensibili che hanno cercato la verità dell’esistenza laggiù, vicino alla razza che vive sul grande oceano, razza felice e ignorante, sensuale e coraggiosa, accogliente, ma senza passione e  senza pensieri. L’infelicità di Gauguin fu un grido di più, gigantesco e solitario, nell’immensità dell’Oceano Pacifico. Anche Émile ne aveva raccolto  solo l’eco esteriore.
- Tra pochi giorni parto per Raiatea. E’ a un giorno di navigazione  da Tahiti -  disse Émile - Là ho famiglia, mia moglie e undici figli. Li aiuterò nella loro piantagione di caffè, cocchi e vaniglia. Poi torno qui, quando arriva il Monterose. -
Il Monterose e il Maripause, che tutti chiamano il Menopause per la sua vecchiaia, sono i due battelli turistici che visitano mensilmente Tahiti, partendo dall’Australia e dagli Stati Uniti. Per Émile il loro arrivo è fonte di guadagno. In quel periodo ha le sue “colazioni di lavoro” coi turisti americani ed europei, che lo invitano per sentirlo parlare del padre  famoso che non ha mai conosciuto.



                                                                                        



 



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